La Cassazione, con la sentenza n. 240127 del 2016, è tornata ad occuparsi dei criteri di calcolo delle assenze per malattia ai fini della verifica del superamento del periodo di comporto ed ha ribadito il suo consolidato orientamento secondo il quale devono essere considerati anche i giorni non lavorativi cadenti nel periodo di assenza per malattia, vista la presunzione di continuità dell’episodio morboso.
E di superamento del periodo di comporto e criteri per il calcolo delle assenze per malattia alla luce della sentenza 240127/2016 ci parla anche l’articolo pubblicato (29.11.2016) dal Sole 24 Ore (Firma: Angelo Zambelli; Titolo: “Legittimo il doppio recesso per motivazioni diverse”)
Ecco l’articolo.
Oggetto del giudizio era la computabilità, accanto ai giorni di effettiva malattia, anche «dei giorni non lavorativi, delle domeniche e delle festività preceduti e seguiti, senza soluzione di continuità, da periodi di malattia». Investita della questione, la Cassazione ha ribadito il proprio orientamento circa «la necessità di tener conto, ai fini del calcolo del comporto, dei giorni non lavorativi cadenti nel periodo di assenza per malattia, dovendosi presumere la continuità dell’episodio morboso» (Cassazione 24 settembre 2014, n. 20106; 15 dicembre 2008, n. 29317; 23 giugno 2006, n. 14633; 10 novembre 2001, n. 21385).
La presunzione di continuità – a giudizio della Corte – opera sia per le festività e i giorni non lavorativi che cadano nel periodo della certificazione, sia nella diversa ipotesi di certificati in sequenza di cui il primo attesti la malattia sino all’ultimo giorno lavorativo che precede il riposo domenicale (ossia fino al venerdì) e il secondo la certifichi dal primo giorno lavorativo successivo alla domenica (ovvero dal lunedì), sicché «i soli giorni che il lavoratore può legittimamente richiedere che non siano conteggiati nel periodo di comporto sono quelli successivi al suo rientro in servizio (in questo senso, Cassazione 29 dicembre 2008 n. 29317; 10 novembre 2004 n. 21385)».
La sentenza si rivela però interessante anche per un secondo profilo. Emerge infatti che «all’oscuro del licenziamento già adottato ma non ancora comunicato», il lavoratore si era recato in azienda per riprendere servizio e, in quell’occasione, aveva subito un infortunio che aveva comportato altri giorni d’assenza.
Considerando «scorretto e contrario a buona fede» il comportamento in questione, la datrice di lavoro aveva avviato un procedimento disciplinare conclusosi con l’irrogazione di un secondo licenziamento, stavolta per giusta causa.
Il dipendente aveva contestato la legittimità del doppio provvedimento espulsivo, osservando come o il primo licenziamento debba intendersi implicitamente revocato o l’intimazione del secondo licenziamento debba essere preclusa dall’efficacia del primo atto di recesso.
Entrambi i motivi di ricorso vengono però respinti dalla Cassazione, secondo cui l’iniziativa disciplinare avviata nei confronti del lavoratore «non solo non era di per sé incompatibile con il primo atto adottato, ma anzi era sintomatica della volontà reiterata di porre termine al rapporto». Con riferimento, quindi, alla possibilità di un doppio recesso dell’azienda, la Corte ha ribadito il principio secondo cui «il datore di lavoro, qualora abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento, fondato su una diversa causa o motivo, restando quest’ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo»(Cassazione 20 gennaio 2011, n. 1244).
La conseguenza è che entrambi gli atti di recesso sono in sé astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto: il secondo licenziamento diviene produttivo di effetti se il primo viene riconosciuto invalido o inefficace.
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