Nel caso di un licenziamento motivato con la soppressione del posto di lavoro, il datore di lavoro, in presenza di altre posizioni aziendali disponibili, sia pur di contenuto professionale inferiore, ha l’onere di prospettare al lavoratore la possibilità di essere utilizzato in tali mansioni non equivalenti quale alternativa al programmato recesso datoriale. La Corte di cassazione ha affermato questo principio con la sentenza n. 26467 deposita il 21 dicembre 2016, nella quale ha rimarcato che, al fine di corroborare la validità del licenziamento, il datore di lavoro ha non solo l’onere di dimostrare l’insussistenza di posizioni alternative di carattere equivalente rispetto al bagaglio di competenze possedute dal lavoratore, ma anche di provare di avere proposto al medesimo lavoratore, senza ottenere il suo consenso, l’opzione per il reimpiego in una mansione di contenuto professionalmente inferiore.

Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Cassazione era relativo al licenziamento intimato da un’azienda della grande distribuzione al manutentore di un punto vendita per intervenuta soppressione del posto di lavoro, in un contesto caratterizzato dalla presenza di svariati altri punti vendita, dove il lavoratore deduceva di poter essere utilmente ricollocato in una funzione di salvaguardia del proprio posto di lavoro.

La Corte d’appello di Milano, riformando la decisione del Tribunale di Monza, respingeva le domande del lavoratore, osservando che l’obbligo di riassegnazione ad una posizione professionale inferiore non poteva essere contestato all’impresa, in quanto il dipendente non aveva offerto la prova che tra le parti del contratto di lavoro era precedentemente intervenuto un patto di dequalificazione. La Cassazione ha ribaltato le conclusioni cui è pervenuta la Corte meneghina, evidenziando che l’onere della prova circa la preventiva offerta di una mansione inferiore, quale misura alternativa al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non può ricadere sul lavoratore. E’ il datore di lavoro, ad avviso della Cassazione, che deve fornire la dimostrazione di avere preventivamente offerto al lavoratore l’impiego in mansioni di livello inferiore, da quest’ultimo non accettate. Il tutto, onde superare la contestazione di non aver assolto all’onere del “repêchage”, ovvero alla verifica circa la possibilità di ricollocare il dipendente in altre mansioni (anche inferiori) compatibili con l’assetto organizzativo aziendale

La Corte ribadisce, ricalcando un consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, che la disponibilità del lavoratore a svolgere mansioni di contenuto peggiorativo si traduce in un patto di demansionamento anteriore o coevo al licenziamento, ma aggiunge che tale consenso può essere espresso dal lavoratore solo se il datore di lavoro, nel rispetto del principio di buona fede che deve presiedere alla gestione del rapporto, abbia prospettato al dipendente una possibile utilizzazione in altre mansioni inferiori.

Da questa premessa la Cassazione ricava la conclusione che l’adempimento del repêchage impone al datore di lavoro di provare non solo l’indisponibilità di mansioni equivalenti al bagaglio professionale del lavoratore, bensì anche di avergli prospettato, senza ottenere il consenso di quest’ultimo, la possibilità di essere ricollocato in mansioni di contenuto inferiore.

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