Risponde del reato di occultamento o distruzione di documenti contabili, previsto dall’articolo 10 del Dlgs 74/2000, il rappresentante legale di un’associazione culturale che omette di esibire, a richiesta del Fisco, le fatture emesse dall’ente per prestazioni di servizi pubblicitari, ancorché svolte in favore degli iscritti. Tali prestazioni, invero, hanno natura oggettivamente commerciale e comportano l’obbligo di emissione e conservazione delle relative fatture, oltre che di istituzione e tenuta del registro delle fatture emesse (o dei corrispettivi).
Questo, in sintesi, il principio sancito dalla Corte di cassazione, nella sentenza 38596 del 13 agosto 2018.

La vicenda processuale
La pronuncia in commento è stata resa nell’ambito del procedimento penale instaurato nei confronti del rappresentante legale di un’associazione culturale, il quale, in entrambi i gradi di merito, era stato ritenuto colpevole del reato di occultamento o distruzione di documenti contabili, di cui all’articolo 10 del Dlgs 74/2000, per avere omesso di esibire ai funzionari dell’Agenzia delle entrate le fatture relative ad alcune prestazioni di servizi pubblicitari svolte dall’ente in favore degli associati.

Nel ricorso per la cassazione della sentenza della Corte d’appello, l’imputato eccepiva:

  • l’erronea applicazione dell’articolo 2214 del codice civile, in materia di scritture contabili obbligatorie. Sosteneva, al riguardo, che le poche fatture emesse per l’attività pubblicitaria svolta in favore degli iscritti non alterassero la natura culturale e non lucrativa dell’associazione e che le prestazioni fatturate non avessero, comunque, natura commerciale
  • l’erronea applicazione della norma incriminatrice, non pertinente nei casi di omessa istituzione della contabilità della quale si predica la distruzione o l’occultamento
  • l’omessa motivazione in ordine all’elemento soggettivo del reato. Invero, il dolo specifico richiesto dalla norma (il fine di evadere le imposte) presuppone l’effettivo pagamento della prestazione fatturata, pagamento di cui mancherebbe, per contro, la prova.

La pronuncia della Cassazione
Con la sentenza in commento, i giudici di legittimità confutano puntualmente le argomentazioni del ricorrente, fornendo una chiara interpretazione delle disposizioni sulla tassazione degli enti non commerciali (articolo 143 e seguenti del Tuir).
Quanto al primo motivo di ricorso, come sopra sintetizzato, viene innanzitutto in rilievo l’articolo 143 del Tuir, applicabile a tutte le tipologie di enti non commerciali, il quale precisa che non si considerano attività commerciali le prestazioni di servizi non rientranti nell’articolo 2195 cc (che definisce le attività di impresa), rese in conformità alle finalità istituzionali dell’ente, senza specifica organizzazione e dietro pagamento di corrispettivi non eccedenti i costi di produzione.
Inoltre, l’articolo 148 del Tuir, con riferimento agli enti di tipo associativo, aggiunge al comma 3 che, per le associazioni ivi elencate (comprese quelle culturali), “non si considerano commerciali le attività svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali, effettuate verso pagamento di corrispettivi specifici nei confronti degli iscritti, associati o partecipanti…”.
 
Tuttavia, come evidenziato dalla Corte, ai sensi del comma 4, lettera d), dello stesso articolo 148, in nessun caso le prestazioni di servizi pubblicitari possono essere considerate non commerciali, anche se erogate a favore degli iscritti, associati o partecipanti. Trattasi, invero, di attività avente carattere “oggettivamente” commerciale, ai sensi del richiamato articolo 2195 cc e tale va considerata anche ai fini fiscali.

Tanto chiarito, i giudici di legittimità puntualizzano, poi, che, a prescindere dalla istituzione della contabilità obbligatoria, la sola emissione della fattura comporta, di per sé, l’obbligo della relativa conservazione e della istituzione e tenuta del registro delle fatture emesse (o dei corrispettivi).
Tali obblighi sono previsti dagli articoli 39 del Dpr 633/72 e 22 del Dpr 600/73 sicché, ai fini della configurazione del reato in argomento, la qualifica imprenditoriale o meno del soggetto emittente appare del tutto ininfluente.

Strettamente connesso a quanto precede è poi il giudizio della Corte in merito al secondo motivo di ricorso dedotto dall’imputato.
A questo riguardo, nella pronuncia si evidenzia come “il reato di occultamento o distruzione di documenti contabili (…) presuppone l’istituzione della documentazione contabile e la produzione di un reddito e, pertanto, non contempla anche la condotta di omessa tenuta delle scritture contabili…”. Invero, prosegue la Corte, “oggetto materiale della condotta contestata … è costituito dalle fatture, non dalla contabilità d’impresa. Non v’è dubbio che la fattura, essendone obbligatoria la conservazione a fini fiscali, rientra a pieno titolo nella definizione di documento penalmente rilevante” ai fini dell’articolo 10 del Dlgs 74/2000.
In sostanza, quindi, la norma incriminatrice è stata correttamente applicata, avendo la contestazione a oggetto l’occultamento o distruzione delle fatture emesse, e non già l’omessa istituzione della contabilità obbligatoria.

Infine, quanto alla valutazione in merito alla sussistenza del dolo specifico di evasione, la suprema Corte rammenta come, in tema di Iva, “il fatto costitutivo dell’obbligazione tributaria è rappresentato anche dalla sola emissione della fattura, soprattutto se l’emissione precede il pagamento del corrispettivo”.
Conclusione che, essendo valida anche nelle ipotesi in cui la fattura venga emessa per operazioni inesistenti o per corrispettivi superiori a quelli reali (articolo 21 Dpr 633/1972), non può che trovare applicazione al caso di specie, con la conseguenza che “il ricorrente era tenuto al pagamento dell’IVA documentata dalle fatture emesse e non rinvenute presso di lui”, restando del tutto irrilevante la prova dell’avvenuto pagamento.